HENRY BOWERS - BOBBY JOE LONG’S FRIENDSHIP PARTY

Il linguaggio ironico nella musica romana

di Davide De Gennaro

Hai scelto di scrivere i testi in romano, e tieni sempre Roma come riferimento. Perché questa esigenza?

Di base parlo romano e parlo anche di Roma perchè, come diceva Fellini, devi sempre parla’ di te stesso nella vita. Non ti puoi nascondere. Devi dire delle verità proprio da un punto di vista culturale, sennò non puoi scuote ‘na coscienza. Infatti la verità arriva alle persone. La gente dice «è vero quello che ha detto». Perciò amplifico la romanità.

Che cos’è la romanità secondo te? In particolare c’è secondo te un tipo specifico di ironia che è profondamente romana, come un modo di guardare al mondo, un atteggiamento verso le cose?

La romanità è la cosa più punk che c’è. Io non penso ci sia nel mondo un accento così punk. Se l’italiano fosse madrelingua in occidente il romano dominerebbe come slang. In Italia infatti piace a tutti. Da ‘na parte noi romani stiamo un po’ sul cazzo perché siamo tracotanti, dall’altra parte stiamo simpatici, perché piace, fa ridere anche me, se sento ‘na battuta de un romano al bar comunque rido come se fossi veneto.

Perché il romano è l’accento più punk?

Io ci ho pensato e me lo sono studiato… Innanzitutto non è un dialetto. È italiano però “a sfregio”. Siamo a Trastevere quindi faccio un volo pindarico: Gioacchino Belli ha scritto un sonetto che si chiama Un Ber Gusto Romano. Finisce così: «E ssi cc’è mmuro bbianco io je lo sfreggno». Il romano c’ha l’intolleranza al potere. Perciò se italiano c’ha una "B" sola io ce ne metto due. Dove ce ne vanno due, io ce ne metto una sola. Il romano fa il contrario, e questo non è dialetto, è una forma di storpiamento, della lingua, dell’impostazione, dell’accademia. Ecco il concetto del punk.

A cosa è dovuto secondo te?

Roma è il primo centro di potere al mondo. I ministeri sono sempre stati qua, e prima c’era il papa, prima ancora l’impero. Sempre un’imposizione di potere. Perciò il romano è intollerante al potere, ce l’ha nel DNA. È anarchico, ma non nel senso politico. Preferisco usare punk, perché non m’interessa qual è il potere, se m’opprime io mi ribello. Tu al romano una cosa gliela devi dire in una certa maniera. Se qualcuno ti alza la voce e ti impone una cosa anche se giusta, la prendi male, più di quanto la possono prendere altri. Gioacchino Belli, Un Ber Gusto Romano: se c’è un muro bianco te lo devo sfregiare. Non ti devo spiegare cos’è la romanità, basta leggersi quel sonetto.

Poi è intellegibile a tutti. Non ci sono parole troppo diverse dall’italiano.

Si, poi c’è un modo spiccio di far capire le cose. Le nonne spesso sono emblema di questo. Oppure il dire la cosa ad alta voce quando va detta. Alzare il tono per far capire la gravità. E poi c’è ‘sta cosa della voce profonda, perché il romano è di piazza, quindi abbiamo sviluppato una voce profonda. A me dicono che anche se non canto ma faccio un parlato, comunque mi ritrovo un timbro vocale fico.

Che poi è molto dark. È come se “matchasse” la musica.

Infatti Ian Curtis aveva un timbro vocale profondo. Pure i Dave Gahan dei Depeche Mode, una voce clamorosa ma cupa. Quindi il romano si sposa pure bene con un certo tipo di musica, e mi chiedevo, perché non l’ha mai usato nessuno? Pure se sentivo Lando Fiorini dicevo, cazzo che roba dark. I romani c’hanno una cultura cupa. Cantavano canzoni tipo Er Canto dei Carcerati, che cito in Staff Da Night Starker nel ritornello.

A volte più cupa della cultura nordeuropea.

Perché lasciamo sempre agli altri la palma del più cupo? «Ah sai lì non c’hanno ‘r sole, so’ gotici…». No! Manco pe’ gnente. Il romano c’ha una stratificazione di millenni. E se girano i fantasmi in America, qua quanti ne girano? Cioè quelli c’hanno du scudi de anni, e noi lo sai da quant’è che stiamo qua? E allora sto complesso del provincialismo bisogna toglierselo.

Infatti nei tuoi testi l’ironia si sovrappone anche a un tedio esistenziale.

Gioacchino Belli era emblematico anche in questo. Il romano è cupo, è laconico, è depressivo. Quando dice ‘na cosa la dice in maniera pesante. Non ce gira intorno. Ti fa il quadro crudo. Il gotico inglese è più velato, sepolcrale, abbellito, invece il romano è truce, è crudo. È proprio l’espressione massima per identificare certi sentimenti, bipolari, depressivi e esaltati, e non quelli medi. Quelli li lasciamo al milanese, senza offesa. Nel progetto l’idea che c’ho avuto è stato mischiare concetti “elitari” con un’immediatezza romana, cruda. Ad esempio nella canzone Flauto De Vertebre, romanizzazione del poema di Majakovskij. Lui era innamorato di Lili Brik che era la moglie di un suo amico. Un rapporto platonico. La chiama al telefono alle tre del mattino, e dice: «Adesso m’ammazzo». Io lo dico alla romana. Poi va a casa sua con la pistola che però gli ha fatto cilecca, e lei passa tutta la notte a giocare a scacchi con lui fino all’alba per fargli passare la compulsione suicida. Io quella cosa la racconto in romano in due righe. Il romano quindi c’ha anche la sintesi, è perfetto.

L’espressione più romana di tutte forse è Aoh!, che è il titolo del vostro ultimo disco, e in copertina c’è una grafica in cui “Aoh” è scritto come la A degli anarchici.

Si, è proprio il concetto dell’album. L’interiezione slang romano messa con la A di anarchia. Il logo è il concetto dell’attitudine punk della romanità, disegnato. M’è venuto in mente pure un film americano che non ricordo ora in cui una ragazza sta a Venezia e scopre la parola “boh”. Noi siamo talmente sviluppati nella lingua che a volte semplifichiamo le cose. Usiamo una parola o un verso, e poi in base alla sfumatura e al contesto possono dire un miliardo di cose. “Aoh” si usa per chiamare qualcuno ma per mille altri motivi, a seconda di come lo usi, del tono della voce… Volevo fare un album emblematico al livello romano. Il titolo Aoh! è immediato, secco, pure commerciale, vendibile. Poi c’è ‘sta cosa dell’h, la Treccani la mette in mezzo, “aho”, invece va messa dopo. Si può scrivere pure senza h però se va, va dopo, non prima. È la h di “oh”, come interiezione. Pure là voglio andare contro la Treccani e l’Accademia della Crusca, è l’intolleranza romana, e ti metto l’h dopo. Il vocabolario lo impone il volgo, non l’accademia.

A proposito degli standard accademici: una canzone ironica, con risvolti comici, oppure in dialetto, per i nostri standard estetici e culturali può venir percepita come macchiettistica, “non seria” e poco “artistica”, appartenente alla cultura bassa. Quali sono invece le potenzialità artistiche di questo linguaggio?

In Italia c’è un’anima borghese per cui ciò che è dialettale è una macchietta. Quella è la borghesia. La borghesia tende a trovare tutte cose ironiche, sopra le righe, come qualcosa di non degno. Pure Gioacchino Belli viene messo sui libri come uno della poesia vernacolare. Quello sta ai livelli di Dante. Ci sono dei passaggi, delle vette che per raggiungerle bisogna scomodare poeti di un certo tipo. Gli artisti invece, da Troisi a Sordi nel cinema, hanno sempre messo in evidenza questi lati popolari. Il punk infatti è antiborghese. L’inganno più grande è che questo snobismo si è diffuso in primis tra la gente che non sa parlare italiano perché sono di periferia, magari, però gliel’hanno indotto attraverso la TV, o attraverso la letteratura da due soldi.

Gli hanno fatto crescere una sorta di complesso di inferiorità. Come se ti fanno rinnegare le tue radici.

Sì, e il primo a portare questa cosa è stato Pasolini. Ragazzi di vita, Una vita violenta. E criticava Cesare Pavese, che vinceva i premi Strega, e lui gli diceva che era un borghesuccio. Poi tutti i più grandi vernacolari romani sono diventati italianisti. Quando diventano famosi devono uscire dal provincialismo. Per me non è provincialismo. Che ne so, Pino Daniele cantava in napoletano anche quando ha fatto i pezzi più mainstream. Ci sono anche tutti gli addetti ai lavori, la TV che ti dicono: «esci da ‘sta cosa, di stare sotto casa tua…». Invece no, casa tua la devi portare in giro per il mondo. La devi imporre casa tua. Come fanno gli inglesi o gli americani. Impongono un prodotto: la moda è mutuata da come si vestivano quelli sotto casa loro nel quartiere di New York. Se ci pensi quando una persona che viene dalla periferia in situazioni in cui è in soggezione a un ruolo nasconde il fatto di gesticolare o parlare in una certa maniera, è limitante.

Nel rapporto dominante-dominato, il dominato interiorizza le aspettative e le pretese culturali del dominante.

Quindi la borghesia inibisce la creatività. Pensiamo sempre che se stamo a rapportà con un’entità più grande di noi, che è in realtà solo il pensiero borghese. Ad esempio, lo stornello è punk, come hai fatto a non arrivarci? Se attacco una chitarra elettrica, è punk. Non è che se lo so’ inventato gli inglesi. Se gli stornellari attaccavano la chitarra elettrica… Noi c’abbiamo sto difetto qua in Italia, che il pischello negli anni ’70 guardava quello che facevano in Inghilterra, ma non guarda che c’ha qua lo stornello, e non dice: perché non c’attaccamo una chitarra elettrica? A noi sembra ridicolo, perché pensiamo in maniera borghese. L’inglese invece se stava qui ti faceva lo stornello punk. Se lo stornello è ridicolo, è folklore, è figo! Gli inglesi attingono alla cultura di strada, e il rap uguale. È per quello che è de rottura. Invece noi non siamo de rottura perché abbiamo paura a farlo a casa nostra e scimmiottiamo gli altri. Poi possiamo avere un ottimo livello da un punto di vista di cantato, produzione, ma se tu mi parli di rottura io devo andare a pescare all’estero. Ma non sono esterofilo, per niente. I CCCP ad esempio erano di rottura, e altri negli anni ’80.

Il romano è punk quindi ma abbiamo paura di farlo emergere.

Guarda gli inglesi, che hanno inventato il punk. Loro in realtà so’ simili agli italiani, e soprattutto ai romani. Sono popolani, là è il popolo che scrive la cultura. Anche a Roma è successa la stessa cosa. C’è un orgoglio nell’essere popolano, da altre parti invece si tende a nasconderlo. Uguale il napoletano: hanno avuto delle vette assurde nella cultura italiana e pure estera. Pensa la pizza, un prodotto di periferia. Solo che non sono mercanti. Noi stiamo bene e ci adagiamo mentre gli altri ci vendono il fast food. C’è sta similitudine Londra-Roma, magari sarà pure che Londra è una grande città, comunque ho sempre visto il popolano inglese come uno simile a me romano. Infatti è l’unica nazione al mondo che c’ha una forma di potere monarchico che va avanti da secoli, la corona, ed è rigido quel potere. Quando i Sex Pistols cantavano Anarchy In The UK, God Save The Queen, li hanno perseguiti, Johnny Rotten ha subito diverse aggressioni. Hanno cantato No One Is Innocent con un criminale latitante, Ronnie Bigs. La rottura del popolano inglese è questa. Oggi queste cose le hanno rese innocue, ma i musicisti hanno cambiato la società. Oggi tutti c’hanno le etichette, la TV, perché li controllano. Prima la musica era sfuggita dal controllo e spostava la gente, spostava la società. Cose oggi impossibili. A Londra poi attecchiscono controculture che qua non attecchiscono. Qua rimani rionale. Loro invece sono riusciti a far diventare cose che sentivano in cinque dentro un bar prima locali, poi nazionali e mondiali.

«Questo è er synth-pop de Roma Est». C’è dell’ironia anche nel richiamarvi allo stile del vostro universo musicale di riferimento, come per non prenderlo troppo sul serio? Come rielaborate quel mondo lì?

Musicalmente si capisce che sei uno che la musica non la suona e non ha preso mai lezioni perchè hai delle idee che un musicista impostato non avrebbe. Certi tipi di soluzioni tecniche che sembrano pecionate però poi funzionano. Io non sono un musicista, se lo fossi magari verrei influenzato da dei parametri. Quindi c’è un non-accademicismo.

«Fanculo sempre tutte le accademie». (cit. da C’è da dire, n. d. r.)

Sì, perché ti danno un manierismo che influenza il pensiero. Una volta che assumi tutte le regole base non te le scordi più. Il punk funzionava perché non c’aveva regole base.

«Una volta ho visto un coatto dire ad un altro: “Io t’uccido ’n quattro mosse”» (cit. da Mortacciloro, n. d. r.). Ti capita di essere ispirato da quegli scorci impressionistici di vita ordinaria che solo Roma sa regalare?

Roma è la città più grossa d’Europa. Nonostante ciò è una città accogliente. C’è un’immediatezza, che è un lato positivo. Se stai in giro.. piangi a Roma? Passa uno, «ao, che sta a succede?». Piagni a Londra? Muori. D’altra parte c’è un lato negativo. «O come te sei vestito?» e vai a litigare. Sembra come se fosse un paese. Me ne accorgo quando magari vado a Berlino, e mi sembravano più fichi loro, non ti si fila nessuno e stai per i fatti tuoi… poi invece m’accorgo che no, è figo stare qua. È una magia. Pure quest’altra cosa, a Berlino non senti rumore, com’è possibile? Ma che città è? Non c’è casino, come fai a vivere così? E te vuoi portare Roma a quei livelli? Ma tenemosela com’è. Damose del tu, piamose i difetti, pure er traffico, le litigate, tenemosela stretta perché poi c’è tutto il rovescio della medaglia.

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