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Il linguaggio ironico nella musica romana

di Davide De Gennaro

C’è secondo te un tipo specifico di ironia che è profondamente romana? Un modo di guardare al mondo, un atteggiamento verso le cose tipico della romanità?

Secondo me sì, assolutamente c’è. Penso sia connaturato alla romanità una sorta di sarcasmo disincantato. Ci saranno sicuramente sociologi e antropologi che l’hanno spiegato meglio di me. Però si, ed è una cosa che apprezzo molto di Roma, anche se a volte mi ha dato fastidio perché può essere inopportuna. Può essere molto grezza, certo ci sono vari livelli, però non sono mai stato grande fan del romano e del romanaccio. Ma passando gli anni, sono diventato un pochino meno netto, invece che dire: «quella cosa non mi interessa». Ho visto da poco Il Marchese del Grillo e l’ho trovata una cosa geniale e raffinatissima. Poi sai, di Alberto Sordi ce ne sta uno, però ha creato tanti epigoni, tanti piccoli figli e comunque ce le portiamo appresso queste cose. Quindi sì, c’è un’ironia specifica romana, che è un’ironia popolare, anche miserabile a volte, che riesce a cogliere nel segno anche delle ineguaglianze, dei tratti della vita amara. Questa è l’ironia romana storica, poi il romano di oggi è anche totalmente diverso, è un “dritto” uno che è sveglio e non lo freghi.

Pensi ti appartenga questo atteggiamento di disincanto ironico?

Essendo nato e sempre stato a Roma, guardavo la romanità da fuori, per così dire, prima di rendermi conto che ci sono immerso, ne sono intriso, e quando vado magari, che ne so, in Veneto mi rendo conto di essere super romano. Il mio modo di pensare e ragionare è per differenza, per esempio col milanese o col veneto. Per differenza capisco che ce l’ho dentro. Poi mi sento anche assolutamente italiano. E mi piace tantissimo scoprire le altre culture regionali, a cui è sempre connaturato un certo umorismo e una certa ironia.

Se lo usi, in che modo usi questo fare ironico nella scrittura dei testi?

Si certo. Lo uso inconsapevolmente. Insomma, lungi da me l’essere serio. Trovo la perfezione e la serietà noiose. Diciamo che scherzando, prendendo in giro mi diverto anch’io stesso nello scrivere e quindi performo meglio.

Diciamo che questo linguaggio è uno strumento: cosa ci fai usandolo? Cosa ci ottieni, che altrimenti non otterresti?

Innanzitutto l’attenzione del pubblico. Poi l’essere una lente sulla realtà che non ci piace. L’ironia tendenzialmente è critica. Non è, che ne so, la barzelletta sui carabinieri. Anzi, pure quella è critica in un certo senso. Provo ad essere tagliente senza mai avere una vera opinione su niente o senza prendere una posizione, che ti faccia schierare in qualche fazione, in maniera “seria” per così dire. Io percepisco ci siano problemi seri, e che un cantautore dovrebbe affrontarli. Al momento credo di non averli affrontati al 100% davvero, però tramite i miei interessi e una sorta di linguaggio ironico qualcosa ho fatto emergere.

Spesso nelle tue canzoni un velo ironico si sovrappone con squarci inquietanti, sinistri, spiazzanti, oppure sguardi freddi e cinici sulla società o sui comportamenti umani in generale.

Quello dipende molto dalle letture di cui ti nutri… io sono un fifone in realtà. Però gli abissi, la morte, la catastrofe… sono cose talmente grandi che non riesco ad evitare di guardarle. Mi ci devo confrontare e nel lavoro testuale funzionano sempre bene. È anche un espediente: siccome a me fanno effetto so che possono fare effetto anche all’altro e quindi nella canzone ci stanno bene. Poi non escludo che se il mondo andrà rose e fiori e farò canzoni tutte felici. Le canzoni sono il termometro di quello che vivo e ad esempio se confronti primo e secondo disco il secondo è molto più sinistro, perché l’ho scritto tutto quando ci avevano chiusi dentro casa, e del futuro quello pensavo. Poi l’occulto, il messianico, il “massone” come immaginario, la segretezza, l’esclusività… sono dei temi che mi affascinano esteticamente, come simbolo. Anche il barocco o la musica classica tedesca… ma poi c’è anche la canzone brasiliana. È un “tutto insieme”. A parte le cose proprio patetiche tutto per me è interessante e lo metto insieme. Forse con la maturità riuscirò a fare dei progetti meno schizofrenici, capire più io stesso chi sono davvero, perché non è che metto il vero me stesso nell’opera. Questi sono tutti esercizi di stile ognuno differente dall’altro.

E come interagiscono questi due piani, l’usare l’ironia e il ridere di qualcosa che però ha dei tratti mostruosi se lo guardi bene?

Riesco ad essere serio solo sul sinistro. Poi spesso è anche la musica che mi evoca lo stile del testo. In Privilegio Raro, la canzone che apre il disco, ho usato la partitura della mano sinistra di un trio di Schubert che sta in Barry Lindon di Kubrick, che è musica proprio inquietante, ed è ovvio che lì mi è venuto un testo molto sinistro. Molto poco ironico. Più che serio è notturno, mostruoso, demoniaco. Anche quello però è un esercizio di stile che deve sorprendere in primis me. Credo che su un tipo di musica del genere se avessi messo un qualcosa di ironico per far ridere anche, non avrebbe funzionato.

Una canzone ironica, con risvolti comici, per i nostri standard estetici e culturali può venir percepita come macchiettistica, “non seria” e poco “artistica”, appartenente alla cultura bassa. Quali sono invece le potenzialità artistiche del linguaggio ironico?

Penso che forse paradossalmente chi è serio pesca più dalla cultura bassa. Perché chi si prende troppo sul serio di sicuro è mosso anche lui da un desiderio di critica sociale o di espressione. Il problema secondo me è più il concetto di artista. Non è che se hai qualcosa da dire sei un artista. Io credo che la forma sia la cosa più importante. Quindi non è che se il tuo contenuto è cultura alta sei un artista. Il contenuto è dato anche dalla forma. Quindi se tu hai una vena ironica, spiazzante e geniale, anche se stai parlando del cappuccino o della barzelletta sui carabinieri, paradossalmente sei più un artista di qualcuno che è impegnato nel sociale però ti fa due palle così e formalmente non ha spessore artistico.

Come ti è venuta l’idea di scrivere A Roma Va Così? Una sorta di stornello rivisitato. Cosa c’è stato dietro?

Ti faccio entrare proprio dentro il mio processo creativo. Lì nasce proprio da un concetto di forma musicale. La melodia che uso è una musica popolare brasiliana strumentale. Si chiama El Bimbo. Una musica popolare che ha subito centinaia di plagi, tipo Jinga.

La Jinga che si usa nella Capoeira.

Si esatto poi viene usata nella Capoeira. Che è un po’ il motivo per cui il Brasile è speciale nel calcio… Essendo loro dei ballerini hanno creato questo calcio spettacolare, l’apoteosi del calcio. Ascoltando questo ho detto: «Cazzo, ce canto in romano». Mi piaceva proprio il contrasto tra Jinga e stornello. Se ascolti lo stornello, Gabriella Ferri, a me viene da dire che la musica romana abbia più influenze arabe, più malinconica, invece qui senti che è gioiosa, è gioia assoluta. Poi il testo magari è amaro. La canzone nasce da questa cosa più una poesia di Trilussa lunga che dice «A Roma va così, quello che pe’ gli artri è storia pe’ noi so affari de famija». L’ho parafrasata. Poi vado a sentimento, ci sono canzoni in cui lavoro più sul testo per dare un messaggio chiaro. Questa qui invece era proprio una cosa immaginifica, che ti dovesse evocare un immaginario… tipo un film di Fellini.

Senza voler dire qualcosa in particolare.

Non volevo dire nulla, volevo dare un’atmosfera su Roma.. «è sempre primavera, ci sta ancora la lira…». Sono… mi verrebbe da dire quasi cazzate, che però davano un ricamo un pochino cinematografico, che evocasse un tipo di cinema che esalta Roma. Altra cosa bella ad esempio è che Fellini o Sorrentino, insomma chi ha descritto meglio Roma visivamente non è mai stato un romano. Anch’io, dicevo, inizialmente sono sempre stato esterno alla romanità. Queste sono le chiavi di lettura della canzone.

Trilussa, oppure Gioacchino Belli li hai frequentati?

Forse era invece di Belli quella cosa, devo controllare. Io sono un po’ un tombarolo. Rubo un po’ da tutti, però rubo con grandissimo rispetto. Quando leggo una frase che mi piace la mia giornata cambia. Perlomeno la porto a casa la giornata. Unico mio problema è che da quando scrivo canzoni o comunque in generale scrivo, quando ascolto musica o leggo non riesco a farlo mai in maniera totalmente disinteressata. Quando ascolto una canzone, leggo un libro, guardo un film sto sempre pronto a prendermi qualcosa per ridarlo agli altri, sto sempre con le antenne accese. Certo se ascolto The Dark Side of the Moon dico, che cazzo gli posso prendere a questi geni? Ci sono delle perle, ma con un minimo di presunzione ogni piccola cosa mi viene sempre da prenderla per creare. Non sono un ritrattista. Non so disegnare, non so quanto c’entra ma secondo me c’entra. So fare solo cose di rimando. Cioè se fossi un artista fisico, di sicuro non sarei un pittore. Potrei fare un’istallazione con le macerie. Non essendo un ritrattista e un descrittivo non potrei scrivere una canzone su queste tre signore che stanno sedute al tavolo, però potrei stare tutto il giorno qua al Callisto e ascoltando tutto quello che dicono magari scrivo una poesia. Il mio processo creativo funziona così purtroppo o per fortuna, perché non so fare in altro modo. Riesco in quel modo essendo autodidatta, anzi nemmeno, semplicemente vivo così.

Ti capita di essere ispirato da quegli scorci impressionistici di vita ordinaria che solo Roma sa regalare? Ad esempio il “coatto antico” ubriaco del bar Callisto…

Io quelli lì li guardo sempre a testa bassa perché come dicevo sono abbastanza un fifone, sono uno che si intimorisce facile. In realtà faccio più tutto da casa, leggendo, guardando film, ascoltando musica. Gli altri mi interessano molto ma più per la parte video o se magari volessi mai provare a entrare nel mondo del cinema mi metterei a osservare di più ma per le canzoni non ne ho troppo bisogno. Dicevo, non sono né un ritrattista né un sentimentale, emotivo che dice « Ah, l’alba…», capito, non me ne frega un cazzo dell’alba. Non sono un descrittivo. Però, il folle o il personaggio del popolo che dice una verità in realtà mi può colpire tantissimo.

Perché secondo te molti artisti di Roma usciti negli ultimi anni usano questo linguaggio ironico? Ad esempio facendo dei nomi, su tutti, Carl Brave e Franco 126, in generale la Lovegang.

Conoscendoli di persona ti posso dire che loro ce l’hanno molto connaturata questa romanità. Io non trovo per forza troppe cose in comune con loro, la mia è una ricerca più personale che coinvolge altre cose e che evade da Roma… Però loro sì, hanno questa malinconia e questa ironia malinconica che è determinata anche da questa Roma qua (guarda Trastevere attorno, n. d. r.)… che è il futuro in quanto è il degrado. Nel senso che ha finito di evolversi.

È come se fosse sempre ristagnante in se stessa.

‘Na pozzanghera che non diventa mai lago.

È come se Roma non potesse andare avanti per sua natura perché c’è troppa storia. C’è il peso della storia che la porta a fondo.

Bravo. Questo non lo dico io, adesso non mi ricordo chi l’ha detto, qualcuno di importante: che poi alla fine tutte le città arriveranno a questo. Siamo ancora il futuro perché siamo già alla fine. Tutte le città arriveranno a questo stato.

Roma ci è arrivata prima.

Si. La massima aspirazione che possono avere le altre città è arrivare a questo stato. È proprio una caratteristica delle città, del concetto di città. Questo stratificarsi, come con gli strati archeologici…

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